sabato 23 agosto 2008

Dedica



Dedica a una zia che m’è cara.

Ci vediamo di rado ma non sono scontati criteri di una frequentazione o di una possibile o non possibile assiduità quel che passa fra noi quanto una sorta d’intesa su piani energetici o di essenzialità, ci rispettiamo nel nostro modo di essere senza voler correggere o interferire con giudizi o peggio con sottintese aspettative manipolative.

Una certa libertà nel rapporto, di solito, non così facile in quanto richiede una pariteticità. Ci accade perché i nostri caratteri e le nostre strutture s’incontrano su certi piani di sintonia e di affinità infantile e naive.

Il bello di questa donna ottantatreenne è che ce l’ha fatta a conservare il suo Sé, il suo nucleo di entusiasmo e di celebrazione dell’esistenza nelle piccole cose che poi tanto piccole non sono se le nominiamo e sono magari una lucertolina o una mora di gelso una vecchia canzone cantata a voce spiegata un vaso di citronella una peripatetica accoppiata di passi a cercare i sassi del mare per un tempo lungo senza sosta senza noia senza ansia. Il cuore fanciullino di certe persone è una benedizione per quelli che sanno vederlo e sanno accettarlo, sarà un fatto di onde alfa ma con certe persone non scatta nessun meccanismo forsennato anzi allaga la calma e il benessere arriva da sé.

Lei è così, è questo l’effetto che agisce su di me. Ha conservato il suo nucleo vero, eppure i colpi inferti dalla vita sono stati tanti, ferite inguaribili implacabilmente inferte da una società patriarcale e maschilista di pessima impostazione ed aridamente vessatoria.

Eppure gl’opprimenti fardelli non le hanno offuscato il cuore, lei non ha perso la brillantezza e soprattutto ha continuato ad essere una macchina di desiderio, in ambiti minimi certo, a desiderare un paio di pendenti alle orecchie o una blusa dai colori chiassosi o a pitturare una porta di giallo perché posare gli occhi su quel colore le fa bene e le mette allegria.

Le piace cucinare e mangiare bene, è molto esigente, non mangia la sera quel che è avanzato del giorno, segue l’estro del momento e della voglia per prepararsi i suoi manicaretti. La vedovanza bisogna dirlo le ha regalato la sua libertà, nessun controllo sugli orari e poter fare quello che le passa per la testa.

Viene criticata ma questo è un lampante segno a suo favore, a suo pro per l'istintiva originalità di agghindarsi con i colori più solari o di andare a fare opere di carità a chi pare a lei o di spifferare certi commenti giusti e veri ma molto poco correct e poi sì c’ha pure le sue derive retrive, gli imprinting indelebili della patriarcalità che ti segna a fuoco ma quel che conta è che lei sa del qui e ora, nessuno glielo ha insegnato ma lei lo pratica, lo vive e in tranquilla naturalità se ne sta in stati meditativi.

In questa esistenza terrena non le sarà possibile incontrare le briciole di conoscenza di Orazio o del Magnifico, di Bergson o di Khayam di Holderlin di Gurdjeff o di Osho o di Jung o di Freud, di Hilmann o di Winnicott o di Emily Dickinson o della Woolf o di Anais Nin o di Cristina Campo o della Hillesum eppure anche lei ha partecipato nei suoi atomi di quelle stesse essenziali tensioni o di quegli aneliti alla vibrazione.

Anche in lei indelebile una ghianda c’è, della sua unicità, della sua naturale propensione al gioco e alla giocosità, alla simbolicità, alla creatività del vivere nel senso lato, alla sublimazione, all’estatico, al godimento dell’attimo presente, all’elaborazione della caducità che ogni cosa rende più bella e più godibile.

Da questa zia imparo.

In lei pienamente e potentemente riconosco il femminino selvaggio quello che con intensità e dolcezza la Clarissa Pinkola Estes non smette di ricordarci con tutta la grinta e l’enfasi del mondo e con tutta la ridondanza che ci vuole:

l’udire e reimparare ad udire gli avvertimenti interiori,
il padroneggiare l’intima e l’antica conoscenza,
il contatto con il senso di sé,
l’addestrarsi alla consapevolezza,
il perseguire l’essenza delle cose,
il porsi le domande giuste,
l’abbandono estatico alle leggi del vitale,
il tornare alla propria natura profonda,
a ricollegarsi al selvaggio per essere sostenute nei pensieri nei sentimenti e nelle azioni,
la visione vitale e l’essere capaci di sopportare quel che si vede,
quindi la pazienza, la costanza, la fiducia, la forza femminile come le radici di un albero maestoso, radici vitali perché attingono incessantemente a nutrimenti invisibili.

Questi pensieri miei e annessi corollari di emozioni sono dedicati a zia C. (Clòri mi piace come pseudonimo per lei, dea dei fiori sposa di Zèfiro)
con vibrazione d’affetto e senso di gratitudine per il suo essere com’è, vulnerabile e sola e pur fiduciosamente affidata alla vita.



2 commenti:

a.o. ha detto...

Che privilegio fare la conoscenza di zia Concettina, proprio adesso poi, che la necessità di essere ben presente a se stessi diventa esigenza primaria, ne va del presente e del futuro di a.o.
Come di ogni altra donna, no?

Da zia Concettina impariamo.
a.o.

papavero di campo ha detto...

aiuola cara, ognuna di noi è chiamata a sé stessa, ad esserci con la consapevolezza che si può permettere, non è facile a nessuna età..come una giovane piantina..tu lo insegni- allevata custodita nutrita..prendiamoci cura di noi, fidiamoci e affidiamoci

sei stata cara a intervenire su questo post, ti ringrazio con una brezza da papavero ad aiuola!

 
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